Pomardi "Viaggio"
1/47 Galaxidi, 1805
Da Patrasso a Galaxidi vi sono circa cinquantacinque miglia, che da noi furono fatte in sette ore. Essendo giunto in Galaxidi nel tempo del Carnevale fui spettatore del ballo chiamato del Fazzoletto, il quale è rappresentato con molta naturalezza, e semplicità. Alla testa havvi un uomo, che batte un gran tamburro con una mazza dando un colpo dopo l' altro, e questi è preceduto da due altri uomini, che suonano una specie di clarinetta: dopo ciò siegue una lunga fila di uomini ballando, cioè alzando in alto la gamba destra, e camminando coll’ altra, e tenendosi per la mano l' un l' altro, il primo de’ quali tiene un fazzoletto di qualche colore colla mano destra, e continuamente lo agita, e muove in alto. Alla fila degli uomini succede quella delle donne, la quale ballando nella stessa guisa viene ad unirsi coll' altra, e formasi così un cerchio perfetto, dividendo però i due sessi un piccolo ragazzo, o ragazza. Nel centro del cerchio si pone quello, che suona il tamburro, ed ancora gruppi di donne co' loro bambini guardando il ballo in varie positure. D’ intorno poi havvi una moltitudine di spettatori vestiti de' loro abiti più sfarzosi, specialmente le donne, che si pongono quell' abito, col quale sono andate a sposare, portando nelle fascie, che si cingono due scudetti rotondi, o a guisa di cuore, di argento o dorati. In tal maniera continuarono il ballo fino alla notte, ed io ne trassi molto piacere a vederlo. Questo è uno de' principali divertimenti del loro carnevale, poichè le maschere sono poco in uso, e generalmente consistono nel vestirsi gli uomini da donne, e le donne da uomini, e nel porsi una mascheraccia sul volto. La sera fino al tardi udii cantare, e suonare per tutto il villaggio; ma la musica mi parve assai melanconica, e nojosa.
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1/71-72 lira, Daulis, 1805?
Daulia l' antica Daulis, o Daulide conserva quasi incorrotto il suo nome, e poco si è allontanata dal sito primitivo. Oggi è un villaggio di piccola estensione, composto di circa cento cinquanta case. Gli abitanti fanno da loro stessi un' istromento chiamato lyra, e ponendovi tre corde le suonano con un arco a guisa di un nostro violoncello. Lo vidi fare in mia presenza uno di questi istromenti: prendono un legno lo vuotano, e gli danno una forma ovale, o rotonda dalla parte di sotto con un corto manico, tutto d’ un pezzo solo, e poco più piccolo di un violino; sopra la parte vuota aggiungono una tavoletta in piano con bucchi, ed incollata, e vi pongono un rozzo ponticello, e le chiavi per le corde: il suono è aspro, ma piace l' udirlo alla vista del vicino Parnasso, che i Dauliesi chiamano Zàcora.
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1/82 Turchi, Livadia, 1805?
Durante il mio soggiorno in Livadià, che fu di parecchi giorni a causa del tempo piovoso, i Turchi celebrarono per tre giorni consecutivi una loro festa, e fra gli altri giochi vidi di nuovo il ballo dell fazzoletto fatto da loro, al quale però le donne non presero parte, ed inoltre vi era una musica più compita di quella da me veduta in simile occasione a Galaxìdi, imperciocchè oltre i tamburri vi erano ancora due tibie: anche a questo ballo assisteva una folla di popolo, nel quale erano frammischiati molti Negri, e Negre. Da un lato della piazza vi era una macchina quadrata di legno fatta a guisa di ruota, che veniva girata agli angoli da uomini; ed in ogni lato di detta macchina stava un sedile, che girava parimente nel tutto insieme con un Turco a sedere, i quali continuamente giravano da alto in basso senza pericolo di cadere.
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1/153-156 donne nude in caverna, Atene, 1805
Continuando a salire l' Ilisso, giunsi, poco dopo aver passato l' isola, al sito dove era il ponte dello Stadio formato da tre archi costrutti di grandi pietre quadrate, secondo, che da Spon si rileva, il quale lo vide intiero: oggi però, siccome accennai di sopra, è intieramente distrutto, e solo scorgesi qualche vestigio delle due teste di esso. Dirimpetto a questo ponte, e a poca distanza di esso sulla riva sinistra del fiume era il famoso Stadio costrutto da Erode Attico, e secondo Pausania uno degli edifici più magnifici di Atene, essendo intieramente edificato di marmo pentelico, per lo che Erode Attico esaurì quasi una sua cava. Il sito non poteva essere più opportuno, essendo il luogo circondato da colline, sul pendìo delle quali si appoggiarono le gradinate. Oggi è tutto rovinato, e solo si veggono infinite scheggie del marmo, onde era costrutto. Si riconosce però la sua forma curvilinea in tutta la sua estensione, essendo due linee parallele unite in tondo da una linea semicircolare; la sua lunghezza è di cento venticinque passi, e la larghezza di ventisette. Entrando nell' area dello Stadio, si scorgono sulla collina a destra gli avanzi di una fabbrica antica creduta il tempio della Vittoria, e a sinistra sulla collina opposta sono le rovine di un muro forse appartenente al tempio della Fortuna. Camminando pochi passi più oltre per la pianura, volgendosi a sinistra si entra in una spaziosa caverna aperta nella parte opposta, la quale viene dagli Ateniesi nomata Rhotòcredi Spilià, e poichè ho nomato questa grotta, mi cade in acconcio parlare di una superstizione, che in questa, ed altre grotte sogliono usare le donne Greche, e Turche, e particolarmente quelle, che non hanno marito; e quantunque questo sia quasi un mistero, e passi in segreto fra le donne stesse, pure essendone stato informato da persone degne di fede, ed essendo stato io stesso testimonio oculare di una parte di tali ceremonie, posso attestare la verità di ciò, che sono per narrare. Le donne adunque, e specialmente le donzelle, che bramano trovare un buon marito, vanno continuamente di giorno, e di notte in una di tali grotte, in compagnia di qualche donna più anziana, e vi fanno una specie di libazione, e sacrificio al Fato, uso, che risente dell' antica Religione de' Greci: ciò si fa per scongiurare il destino, affinchè conceda loro un buon marito. Pongono adunque in terra, o sopra una pietra un pannicello bianco della grandezza di una quarta parte di una nostra salvietta, e sopra quello mettono una focaccia di farina di grano cotta sulla bragia molto politamente; avanti a questa pongono una picciola tazza con entro del miele, ed alcune mandorle ben mondate. Fatto ciò accendono un piccolo fuoco con alcuni legni odorosi dentro un piatto, o vaso rotto, i quali non mancano mai in tali caverne, e mormorando parole segrete pregano caldamente il destìno, onde sia loro propizio in ciò, che desiderano, e quindi partono lasciando tutto nello stato, nel quale ho descritto, quasi debba servire di nutrimento al destino, essendo persuase, che con tal ceremonia lo avranno favorevole ne' loro desideri. E ciò, che ho descritto, l' ho veduto io stesso un giorno, che andava per disegnare il sepolcro creduto di Cimone; dove avendo veduto due donne, che vi entravano, non volli disturbarle; ma avendo aspettato, che finissero il loro sacrificio, dopo, che esse furono partite, vi entrai, e trovai nella camera più interna il fuoco non peranche estinto, e gli oggetti suddetti nel modo, che ho di sopra narrato. Lo stesso vidi anche nel così detto carcere di Socrate, ed in altre caverne. Ma più solenne è ancora la ceremonia, che si fa pur dalle donne nella grotta presso lo Stadio; imperciochè unisconsi in molte per non aver timore, ed accendono un fuoco più grande per illuminar maggiormente la caverna, e dopo di aver preparato la solita offerta, si spogliano, e si pongono a ballare nude intorno al fuoco tenendosi per la mano; ma ciò fanno con molta cautela per non essere sorprese, e pongono alcune donne più vecchie alle due bocche della caverna per osservare, che non sopraggiunga alcuna persona.
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1/166-171 Atene, 1805
Il giorno di Pasqua riprendono tutti l' uso delle carni, e de' latticini, e si vestono, sì uomini, che donne, degli abiti migliori, che hanno. Trovandomi in tale festa in Atene, vidi andare in giro tamburri, e clarinette suonando, ed i Greci ballavano per le vie. Ed è cosa curiosa a vedersi, che i suonatori sono Turchi, i quali sono molto bene pagate dai Greci ne tre giorni festivi di Pasqua, ed essi stessi per ottenere la licenza di suonare pagano al Vaivòda cento piastre turche: così si passano le tre feste di Pasqua. Nelle chiese poi le grandi funzioni si fanno di notte, secondo l' uso primitivo della Chiesa, e quando io fui in Atene, l' Arcivescovo cantò la Messa prima di giorno nella sua chiesa: e siccome non vi sono campane fanno battere alle porte de' Cristiani per avvertirli d' intervenire alla chiesa, ed in tali giorni le botteghe tengonsi chiuse. La terza festa di Pasqua, poco prima di mezzodì andai al tempio di Teseo, oggi dedicato a S. Giorgio, per vedere il ballo, che sogliono farvi gli Albanesi. Erano questi vestiti molto riccamente, e ballavano il solito ballo del fazzoletto; la musica stava nel centro, ed era composta di due tamburri grandi, che venivano battuti di sopra con una mazza, e di sotto con una bacchetta, e di due crarinette, che facevano un' armonia molto strana; questa musica irregolarissima, e a capriccio era eseguita da Turchi, e Turco era il direttore. La pioggia impedì alle donne di ballare, e perciò la festa non riuscì tanto brillante; malgrado però il cattivo tempo, il tamburro si è fatto sentire il giorno, e la notte per la città, ed i Greci ballavano come forsennati.
Dalle feste de' Greci passando a quelle de' Turchi, il giorno 5 di Aprile, essendo giorno di venerdì, e piovendo tutta la giornata, ci fu detto, che i Dervís facevano un ballo di religione dentro la Torre de' Venti, onde ci portammo poco dopo mezzodì per esserne spettatori, e mentre aspettavamo, che la porta si aprisse, avendoci veduto il Capo de' Dervis, che abitava dentro il recinto, c' invitò molto cortesemente nella sua casa, e fattici sedere sopra alcuni cuscini con pelli di pecora sotto i piedi, essendo presenti molti altri Dervis, e parecchi Turchi, ci fece presentare le pippe, e dopo circa un quarto di ora molti Turchi, e Dervis entrarono nella moschea a fare le loro preghiere; allora fummo avvertiti, discendemmo in essa, ma senza entrarvi, restando col nostro cappello in testa sulla porta. Nel centro della volta di questo edificio ottagono (Vedi la descrizione fattane di sopra) pendevano da una corda a dieci palmi di distanza da terra dodici lampade. D’ intorno alla moschea sotto il piccolo cornicione stavano appese con chiodi molte tabelle, sopra le quali erano espressi caratteri turchi: nell' angolo sinistro poi pendevano del cornicione sedici ovi, o gusci intieri disposti in tre ordini uno sull' altro con cinque ovi per ordine, ed uno nella cima. Dai lati vedevansi due gran corni, uno sopra una tabella, e l' altro solo alla sinistra attaccato ad un chiodo, ed una mezza luna di ferro; vicino a questa stavano due grandi bastoni appesi ad un chiodo: i corni servono forse in qualche occasione a chiamare i Turchi. A sinistra fra due angoli vidi una nicchia dipinta dentro a striscie avanti la quale si pose a sedere il capo de' Dervis; di quà, e di là erano due candelieri con cerei gialli estinti sopra, i quali posavano sopra due gradini di murro, che giravano intorno: anche le lampade erano estinte. Il piano era di tavole, e sopra v' erano disposte alcune pelli di pecore bianche, bigie, e negre per servigio de' Dervis. Appena entrati i Turchi, si posero a sedere sopra le pelli, ed avanti la nicchia si assise il capo de' Dervis, ed intorno a lui gli altri Dervis, e poi tutti gli altri uomini, e ragazzi, e qualche negro formarono un circolo intorno; v' erano pure due Turchi con due piccioli tamburri di rame coperti di pelle, ed un terzo, che teneva un istromento rotondo chiamato cembalo, il quale suonava con la mano. Tale fu il preparativo. Il capo de’ Dervis dopo qualche silenzio cominciò ad intonare un canto molto flebile, pronunziando le parole Là illai illàh allàh, non v' ha altro Dio che Dio : tutti ripeterono più volte con lo stesso tuono di voce la stessa antifona, continuando per più di un quarto d' ora, e nello stesso tempo piegando, ed alzando sempre tutti la testa ad ogni sillaba, chi prima chi dopo con gesti assai sconci. Questa musica monotona era accompagnata dai due tamburri ad ogni sillaba; questa musica era interrotta di quarto in quarto d' ora dalle esclamazioni, che il capo Dervis faceva di Uh! Allah! e quindi si ricominciava sempre la stessa cantilena, ma sempre più sollecitamente, finchè il capo Dervis con un Uh! Allah! fece finire il tutto, e dopo avere recitato molte preghiere, sempre accompagnandole colle stesse esclamazioni, si alzarono tutti. Allora si misero in circolo ponendo ognuno la mano destra sopra la spalla sinistra di un compagno, e la mano sinistra sotto il braccio destro dell' altro, intrecciandosi in un modo assai curioso : i ragazzi si posero fra gli uomini, mettendo le mani di quà, e di là sopra le schiene de' compagni, e qualche volta anche uscivano d' ordine, e così girando a destra alzando un poco il primo piede, e muovendo l' altro appresso camminando giravano intorno accompagnati dalla stessa musica, ed invocando Iddio (Allah!). Il capo de' Dervis stava nel centro, ed accompagnava il ballo girando, ed alzando le mani, alzando, ed abbassando la testa con gli occhi quasi chiusi per modestia, ed affetando molta divozione; in tal guisa il ballo continuò per un quarto di ora. Discioltosi questo circolo, si posero a ballare due Dervis, tenendosi ciascuno colla mano sinistra per la cintola, e piegandosi molto indietro a punta di piedi, colla gamba, e braccio destro alzati girarono intorno per cinque minuti con una velocità incredibile, come se girassero intorno ad un bilico senza cadere nè da una parte, nè dall' altra. Questo moto fece sciogliere le fascie de' loro turbanti, e nello staccarsi andarono a cadere uno da una parte, e l' altro dall' altra come ubriachi. Essi pretendono con questo ballo imitare gli Angeli, o il moto delle sfere celesti. Dopo ciò vennero altri a ballare separatamente avanti il capo de' Dervis, e facendo mille contorsioni, e graffiandosi il viso, con altre stravaganze. Finalmente il capo de' Dervis tornò a porsi avanti alla sua nicchia, ed essendosi tolto il turbante, e la sopravveste per evitare il caldo, e rimasto col solo berretto rosso, e l 'abito corto, tenendo un tamburrello in mano cominciò a batterlo, accompagnando il ballo, che facevano in sei nel centro, ed altri intorno, i quali continuamente andavano crescendo in velocità, finchè divenuti come energumeni cadevano in terra. Il capo Dervis poi con un Uh! Allah! fece cessare il ballo, ed allora ciascuno asciugandosi il sudore, e brancolando partì dalla moschea, e non rimasero, che i ragazzi, e i Dervis, che postisi a sedere in giro come nel principio, intuonarono la solita antifona La illai etc. Terminata la cerimonia, il capo Dervis si pose sulla porta, e nell' uscire ciscuno gli baciava la mano; ancora noi ci licenziammo da lui col presentargli un regalo di cento parà per la cortesia usataci di farci essere presenti alla funzione. Questo ballo ripetesi ogni quindici giorni; ma in moschee differenti.
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2/92-96 sposa Albanese, Atene, 1805
Il giorno 10 Novembre circa quattro ore dopo mezzo giorno mi portai fuori della porta detta de' Santi Apostoli per vedere giungere una sposa Albanese da un villaggio distante da Atene circa cinque miglia, la quale erasi maritata ad un giovane Ateniese. Il popolo di Atene era accorso a vederla arrivare, e la folla giungeva fino alla piccola chiesa di S. Demetrio, che si trova fuori della porta non molto distante dalla città. Dopo essere rimasto là qualche tempo vidi venire correndo sopra un cavallo un giovane Albanese vestito di rosso, fregiato d’ oro, il quale avea una camiciola molto ornata di argento, con una camicia bianca, che gli scendeva dalla cintura fin sotto al ginocchio, e con stivaletti pure di tela bianca. Il cavallo era di colore incarnato, molto agile, ed avea sulla groppa una coperta di vari colori. Questi era il corriere, che annunziava l' arrivo della sposa alla casa dello sposo, che poco dopo ritornò indietro. Quindi venne un secondo corriere vestito come il primo, il quale veniva correndo, e giuocando con una fascia rossa, che si gittava dietro le spalle. Questo fu seguito da alcuni Albanesi a cavallo, e da molti altri sopra asini, vestiti in gala, uomini e donne, le quali montavano asini carichi di bisaccie grandi rigate di diversi colori. Dopo veniva un Albanese a piedi battendo un gran tamburro, ed un altro vicino a questo suonava la clarinetta, e quindi seguiva un' altra turba di Albanesi, uomini, e donne sopra asini. Dopo cavalcando asini venivano due altri Albanesi uno suonando molto curiosamente un tamburro, e l' altro una clarinetta. Questi erano seguiti da altri Albanesi riccamente vestiti, sopra cavalli, e sopra asini, fra i quali contavansi i parenti della sposa; e dopo essi di nuovo venivano due che suonavano il tamburro, e la clarinetta. Finalmente si vide la sposa, la quale era modestamente seduta sopra un cavallo bianco per denotare la sua purità: essa era alta, bianca, e ben fatta, e vestiva all' Albanese: era però coperta di un grembiale di seta rossa orlato a piedi di frangia d' oro, e sulla testa avea un' altro manto di seta di colore di arancio ricamato a fiori d' oro, il quale le scendeva in punta fin sotto le spalle coprendogli le spalle, e parte del petto. Sotto questo manto un gran velo bianco della fronte le calava verso il petto, e le celava in gran parte il viso. Sulla sua fronte vedevansi molte monete di oro poste per ordine, le quali le ornavano la testa, e nel collo portava molte monete grandi di argento, che le scendevano fino al petto. Il cavallo sul quale era portata era molto lentamente condotto per la corda da un' Albanese vestito di lana bianca, il quale camminava di fianco, tenendo colla destra il cavallo nella testa.
Il cavallo poi avea una sella di legno coperta fuori che nella parte anteriore da un panno di vari colori, che scendeva molto abbasso. Ai fianchi della sposa vedevansi due donne molto riccamente vestite, una delle quali teneva la mano sinistra sulla groppa del cavallo dietro la sposa, e con la destra le teneva le gambe strette sopra il collo del piede; l' altra teneva la mano destra sola sopra la groppa : queste sembravano essere ivi poste per prevenire qualunque accidente. Alla sinistra della sposa, in poca distanza vedevasi un prete greco sopra un cavallo guarnito di un tappeto; egli era vestito di turchino con pelliccia bianca, e soprabito da cavalcare, ed avea in testa una berretta negra. Seguivano quindi uomini, e donne confusamente sopra cavalli, ed asini con tappeti, bisaccie, canestri ec. Finalmente vidi arrivare un cavallo carico di coperte, e cuscini listati bianchi, e turchini, ed era quello il letto nuziale, il quale era seguito da molta gente, che per la varietà del vestire, e de' gesti formava un punto di vista assai interessante. La sposa giunse in città, che era già notte, e quando arrivò presso alla casa dello sposo scesero un uomo, ed una donna co' lumi, i quali illuminarono in gran parte la strada. Al suo arrivo alla porta della casa, molte donne Albanesi le se fecero innanzi, le quali una avanti, e le altre più in distanza molto posatamente ballarono. Queste erano ben vestite, ed il ballo da loro eseguito era maestoso girandosi lentamente, ed alzando un bel fazzoletto di seta rigato, ora con una mano, ora coll' altra, e guardando sempre la sposa; queste riconoscevansi essere maritate dai fiocchi rossi, che scendevano loro dalla testa dietro le spalle, mentre le vergini portano monete di oro, e di argento legate a cordoni, le quali pendono loro dietro le spalle. Dopo qualche momento salii anche io in compagnia di un Greco amico di casa per vedere il fine della festa; ma annojato dalla lunghezza delle ceremonie mi ritirai.
Il dì seguente lo sposo venne condotto per la città da una turba di giovani, vestito di un mantello turchino con maniche, e bavaro rosso, e cappuccio calato dietro le spalle, sul cui pizzo era una medaglia d’ oro, e questo era accompagnato da molti tamburri, e piffari suonati da Albanesi, e da molti giovanetti, che gli ballavano innanzi, portando ciascuno di loro chi un ramo di limoni, chi di aranci con molti mazzi di fiori gialli, e foglie verdi legati sopra un bastone, ed in tal guisa il povero sposo dovè essere portato a spasso per sei giorni continui, e nel settimo finalmente gli fu permesso di andare a riunirsi alla sposa.
Bagatti Ernesto: “Dieci anni in Levante”
11 Smyrne, 1831
Quando ebbe fine la cerimonia del bacio, I convitati fecero fra di loro alcuni giri di waltzer, prendendo parte alla danza anche la sposa, che non abbandonò mai la sala. Finchè cuesta se ne rimase colà, lo sposo, dato bando a qualunque pensiero di gelosia, solo si compiaceva di veder festeggiata la cara sua metà, e di esserle stato di sollievo coll’ averla alleggerita dell’ incomodo peso delle monete ricevute.
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68-71 Rodi, 1831
2. Una festa da ballo poco dilettevole
Verso sera il nostro agente consolare signor Giuliani, che ci aveva servito di guida nell’escursione, ci condusse in sua casa per presentarci la di lui famiglia, composta della moglie, di un figlio e di una figlia. Dopo di esserci colà trattenuti più di un ora, ci alzammo per prendere congedo, ma egli e sua moglie ci pregarono a voler rimanere, avvertendoci che il loro figlio aveva di già prese le disposizioni per farci ballare. Tuttochè non avessimo la miglior prevenzione del divertimento che ci si stava preparando, pure con convenienza condiscendemmo. Vedendo io per altro che in quella casa, non vi era del femmineo sesso che la moglie dell’agente e sua figlia; che la prima, senza farle torto, poteva annoverarsi puramente fra le signore da rispettarsi, e la seconda, poverina, anch’essa non era nè bella nè dotata di molto spirito, domandai quali fossero le danzatrici e seppi che altre cinque erano state invitate. Già era trascorsa un’ altr’ ora, quando finalmente vedo comparire una fanciulla dai quindici ai sedici anni, accompagnata da suo padre, un bel barbuto seguace delle dottrine di Mosè : ma anche a questa, madre natura non aveva largito i suoi favori : mi eredetti avere innanzi agli occhi un’ aringa, tanto ella era magra ! Tuttavia il cuore mi diceva di pazientare che avrei trovato di soddisfare la mia aspettativa nelle altre quattro. Poco dopo sento rumore sulla scala, osservo dalla sovrapposta finestra e vedo salire due delle convitate. Ma ohimè ! due figure dell’Apocalisse: queste pure sono discendenti da Abramo e fedeli al suo culto. Le altre due che, giusta la promessa, dovevano intervenire, per improvviso dolor di pancia (precisamente così si espresse meco il figlio dell’ agente) erano andate a letto. Da uomo sincero qual sono, ho dovuto fare uno sforzo straordinario, per trattenermi dal dichiarare a chi mi parlava dei dolori di pancia, che sarebbe stato ventura ; fosse pur sopraggiunto qualche altro malanno anche alle altre, chè almeno non mi sarei trovato nel pericolo di avere turbati i sonni con incomode fantasmagorie. Delle due ultime comparse, l’una aveva di già scorso l’ottavo, l’altra il decimo lustro ; la prima trovavasi in istato interessante ed innoltrata nel sesto o settimo mese, l’altra aveva terminato di dar proseliti al culto ebraico.
Ma ben presto l’orchestra composta di una chitarra e di un flauto fu in trambusto. Il proverbio dice : chi è al ballo, convien che balli : convinto da quell’ adagio, mi feci animo ed, armato di marziale fermezza, vincendo me stesso, mi presentai alla più provetta in età: questa, influenzata forse da qualche altro proverbio, mi regalò riciso un bel, grazie non ballo. Non mi sgomentai per ciò e, vedendo il giovine Accurti impossessato della signora dallo stato interessante, mi rivolsi all’aringa che poveretta, obliata da tutti, solinga se ne stava seduta in un angolo della sala: le faccio un bel complimento, ma essa non muove neppur la bocca per darmi risposta, sicchè mi nacque il sospetto, fosse sorda e muta. Ciononostante facendola da ardito, la presi per un braccio, e sollevatala dalla sedia, mi misi in moto. Ballava male, ma era leggiera e, rilevando che sentiva un tantino il tempo della musica, conchiusi che non era sorda. Restavami a verificare se avesse o no il dono della favella, e a tale scopo continuai a dirigerle la parola, ma essa intrepida a tacere: e così terminò il nostro waltzer. Volli per altro venirne a capo : accompagnatala quindi alla sua sedia, mi assisi a lei d’accanto, dicendole tante belle cose. Stanca essa finalmente della mia importunità, mi risponde secco : deniscero (non comprendo). In allora mi persuasi che la signorina, essa pure, sciolto aveva lo scilinguagnolo, ma che non conosceva altra lingua fuorchè la propria, cioè la greca, imperocchè non aveva tralasciato, ne’ miei conati per farla parlare, di dirigerle la parola in italiano, in francese, in inglese ed in tedesco. Siccome poi non sapeva io parlarle in greco, le feci un bell’ inchino, lasciandola tranquilla in preda alle sue meditazioni. Ballai in seguito colla signora dal ventre tumido, ma ne fui tanto persuaso, che quella fu la prima ed ultima danza ; mi pareva proprio di ballare con un cavallo da maneggio. Finalmente terminò la festa e feci ritorno a bordo tutto sconcertato, come se mi avessi avuta disgustosa medicina in corpo.
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103-105 Salonichio, 1831?
La Danza dei Dervisch
Trovandosi in Salonichio un convento di Dervisch danzatori, specie di monaci che convivono assieme, domandammo di poter assistere alla loro danza religiosa che aveva luogo ogni lunedì e giovedì, e facilmente ne ebbimo il permesso ; giunti al convento, fummo condotti al piano superiore in una galleria prospiciente nell'interno della moschea. Dopo brevi istanti entrarono nel tempio, preceduti dal loro capo venti di quei monaci, i quali, fatti alcuni giri nell’interno di esso, tutti si posero ginocchioni al suolo, e qui incominciò un baciterra, che non aveva mai fine: rialzatisi poscia, fecero altri tre giri, indi si diè principio alla musica. I suonatori, che stavano con noi nella stessa galleria, non erano dervisch, ma però musulmani essi pure ; i loro strumenti consistevano in una specie di flauto assai lungo, che imboccato da una estremità a guisa di clarinetto, emetteva un suono stridulo ed ingrato, come se avesse una screpolatura, e in quattro piccoli timpanetti del diametro di sei in otto pollici: con ciò era compiuta l’orchestra. Tutti a gara suonavano a loro talento, senza che l’uno si desse la briga di stare in accordo coll’altro. Poco dopo due o tre dervisch dalla sottoposta moschea si misero a cantare accompagnati dai detti strumenti, se pure quello potevasi dir canto, formando un assieme da fare spiritare i gatti.
Quei monaci portano in testa un berretto di rozzo feltro grigio della forma di un cono tronco e lungo quasi un braccio ; vestono sottana di lana, chi di un colore e chi di un altro che, ricca di falde ed assai lunga, loro scende sino ai piedi. Prima che fosse dato principio alla danza, il loro superiore si portò in un lato della moschea e là se ne stette sui due piedi immobile come una statua per tutto il tempo che durò la cerimonia, mentre gli altri monaci, l’ uno dopo l’ altro si misero in moto, aggirandosi cioè ciascuno intorno a sè stesso, e percorrendo in pari tempo lentissimamente il giro della della moschea; uno di essi però si aggirava sulla propria persona al pari degli altri, ma come un perno sempre nel mezzo, sulllo stesso punto. Si mossero da principio quasi insensibilmente, indi progredirono poco a poco sino alla massima celerità ; spiegatesi in quel vivo movimento le sottane a guisa di ombrello, si sciolsero i dervisch dai lombi una cinghia, e le sottane si allungarono in allora di oltre un braccio ; quella faticosa e lunga cerimonia venne ripetuta dopo momentaneo riposo, per ben tre o quattro volte. Era sorprendente in vero di vedere tutte quelle sottane spiegate girare con tanta velocità, senza che l’ una avesse ad urtare coll’ altra. La cerimonia ebbe fine con reciproco bacimano : stando il superiore sempre al suo posto, gli si presentò pel primo quello che girava nel mezzo, e bacciatasi scambievolmente la mano, questi si pose a lui d’ accanto : indi sopraggiunse un secondo dervisch che, bacciandosi esso pure col superiore la mano e, facendo lo stesso coll’ altro, a quest’ ultimo si pose a lato, e così vennero tutti l’ uno dopo l’ altro al bacimano di fratellanza, incominciando dal superiore e scambiandosi il bacio in seguito cogli altri, finchè tutti si trovarono collocati in fila. Quella funzione ebbe principio verso mezzodi e due ore dopo, tutto era finito.
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107-108 Salonichio, 1831?
Nella sera del giorno 15 fummo dal signor Vianello, altro ragguardevole negoziante, che aveva espressamente riunita in casa sua brillante società. Dopo alcuni pezzi di musica, qualcuno incominciò a dire, che la musica aveva il suo pregio, ma che sarebbe stato assai meglio, di dar fine al divertimento colla danza. Vedendo il padrone di casa quanto fosse generalmente aggradita quella proposizione, ci esternò che nulla avrebbe avuto in contrario che si ballasse, benchè fosse tempo quaresimale, ma in confidenza ci fece conoscere, che il parroco, conscio che da lui doveva riunirsi la stessa brigata che due sere prima aveva ballato dall’ israelita signor Alatini, gli aveva ingiunto con lettera di non permettere il ballo in casa sua, minacciandolo con belle espressioni di scomunica, in caso do contravvenzione. Predominato da quella terribile minaccia, il signor Vianello stava in sospeso, ne sapeva indursi ad aderire al desiderio de’ suoi convitati ; quando si sentì ad un tratto intuonare dal piano-forte un waltzer, e il signor Sansauver console francese, si avvicinò a sua moglie che meco stava giuocando all’ ecarté e, facendomi le sue scuse, levatala dalla sedia, con essa incominciò il primo a ballare : in allora mi alzai io pure e, pregando la prima signora che più mi era vicina, seguii il console, tutti gli altri fecero lo stesso e, continuando così a ballare, ci divertimmo sin dopo mezzanotte.
N.N. 6
Corfù 1823
Gli abitanti della campagna sono d'un carattere allegro, molto inclinati al piacere, e si compiacciono assai d'usare vesti e ornamenti di costo, co'quali intervengono alle loro molte feste religiose, ove mescolati co' nativi di Suli, di Parga, d'Idra, di S. Maura, e altri vicini Paesi, formano un unione di foggie di vive tinte, molto caratteristiche del loro splendido clima.- Nella città le feste di ballo sono frequentissime ; il carnevale brioso, e in società i piu seguiti costumi Italiani.
Il Teatro è in generale buono, e s'apre nel mese di ottobre coll' Opera Italiana, e rimane aperto fino alla primavera, allorchè la Quaresima da termine ai sollazzi.
Scrofani - “Viaggio”
131-135
Tal è mia buon’ amica l’esterno della torre de’ venti : andiamo a vederne l’interno. Lascio di parlarvi delle otto picciole colonne che sostengono la cupola, del sasso che ne chiude il centro, degli ornamenti che potevano abbellirla una volta : vi dirò solo qual’ uso or se ne faccia. L’ ordine religioso de’ Dervis, si è impadronito di quest’ edifizio, ha fabbricato vicino a quello il suo convento, si serve per moschea della torre de’ venti, e ne dobbiamo sicuramente a quello, la conservazione. Quest’ ordine il più rigoroso fra quanti se ne conoscono, noa si ciba che di legumi, e di pesci il più delle volte salati: lascia per mortificazione tormentarsi da ogni sorta d’insetti, e ripone nella pazienza, e nella preghiera la speranza di sua salvezza. Le cerimonie di questa preghierra hanno però qualche cosa di strano: ecco come le ho io osservate nella torre de’ venti co’ proprj occhi. Quindici religiosi disposti in giro coperti il capo con una lunga, e dura berretta di panno bianco, tenendo nella mano destra un rosario, stavano in ginocchioni ripiegati su le calcagne. Pareano dapprima a somiglianza di sassi, muti, inseasibili, col guardo fisso in terra, e con le mani stese sopra le coscie. A poco, a poco, al flebile suono d’uno strumento a fiato, che somiglia al nostro oboè, e che un di loro suonava nell’ angolo della moschea, cominciarono a scuotersi dal letargo: si vide la preghiera spuntare, animare, agitare in segreto le loron labbra, finalmente, imitando il suono divenir pubblica, e confondersi con un canto rincrescevole, e acuso: dopo tre minuti tace lo strumento, e I Dervis tornarono in un batter d’occhio nella loro inazione. Al riprender dell’ oboè, non solo ricominciaron le voci, ma ritornò il moto anche nei corpi: rizzarsi in ginocchio, prostrarsi, stender le braccia, piegarle in croce sul ventre, furono operazioni che si successero con la celerità d’ un lampo. Sospendesi il suono, I Dervis ricaddero nel primo stato. Finalmente si fece quello sentire per la terza volta in una misura meno flebile, e più veloce, ma da questo punto I Dervis non si fermarono più. Girarono prima su I piedi indi attorno la moschea. Voi gli avreste presi per maniaci, per inspirati; la voce, il colore sono alterati: le berrette vanno per terra, e I contorcimenti degli occhi, e del corpo annunziano quant’ eglino soffrono: temete di vederli ad ogni istante cadere, o fracassarsi il capo contro le muraglie: voi soffrite per loro ... Pure in un momento dopo tre quarti d’ ora di preghiere, e di giravolte, l’ obeè ammutisce, I Dervis si fermano, e senza fiatare, riprendono le loro barrette, ritornano a loro posti, ricompongonsi, inginocchiansi, e ripiegansi un’ altra volta su le loro caltagne.
Quest’ uso di pregare ballando al suono d’ uno strumento, e che sembra a prima vista ridicola, non è tale se ben si riflette, e appartiene all’ antichità più remota. I Baccanti, gli Ebrei, I Sali non pregavano in altro modo nelle pubbliche feste. Il Phenindo, l’ Hyporchematico, il Cango, il Siculo, erano balli sagri fra Greci dell’ Europa, e dell’ Asia: Eumèlo facea barrar Giove prima d’ occuparsi del destino degli uomini; Socrate ballava il Memfi prima d’ andare all’ Accademia: Davide salme, giava ballando avanti l’ arca del Signore; E Sofocle dopo la vittoria de Salamina, cantò gl’icci in onore degli Ateniesi, e ballò nuda attorno il trofeo eretto da’ vincitori.
Le preghiere de’ Turchi non devono dunque sorprendere il filosofo, ma egli ride per altro, che questo canto, questo ballo, queste convulsioni debbano farsi in Atene de seguaci di Maometto, da una setta di frati, e sopratutto dentro la torre de’ venti fabbricata da Andronico Cirreste due mila anni fa, per ricevervi I filosofi della Grecia. Ecco un nuovo insegnamento onde non stupirci di nulla.
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Athens 188-192
Doveva partire oggi appunto per il Pirèo : ma la nascita di un bambino figlio del Sig. Peruli mi trattien pure questa sera in Atene. Invitato ad assistere al battesimo del rito greco, osservai che le cerimonie, le orazioni della Chiesa, le ammonizioni a Padrini, che sono, è vero, più lunge delle nostre, non lasciano di esser gravi e misteriose.
Dopo il battesimo, ed I rinfreschi che consistono in sciarbet, confetture, e caffè, le giovani convitate chiesero di ballare: il padrone di casa vi condiscese, e al suono d’ una viola si diede principio alla danza. Io giuro, e scommetto ciò che si vuole, she le donne d’Atene non han nulla perduto delle antiche loro forme. Il tagio ovale della faccia, la linea dritta che ne segna regolarmente il profilo; la simmetria nel contorno; gli occhia fior di testa grandi, neri, vivaci: la fronte piccola, I labbri rossi, e l’inferior tumidetto, le ciglia sottilmente inarcate, il seno ricolmo, la vita snella, brevi le mani, ed I piedi, insomma quel certo non so che nell’ insieme, che vi piace, vi attira, v’ incanta, tutto si conserva nelle donne dell’ Atene moderna, ciò che spesso servi de modello nell’ antica. Qui solo elleno non sono degenerate; sino I loro costumi, l’abbigliamento, e la lingua, lo annunziano. Questa è più dolce che altrove, ha qualche cosa di più animato nel suono, di più preciso nell’ espressione: al parlare si conoscono ancora gli altri Greci dagli Ateniesi, come al tempo della vecchia di Teofrasto. Gli atti loro soavi, le loro usanze oneste, e gentili vi prevengono, vi seducono: I Turchi stessi hanno in Atene minor durezza che altrove, e le lor donne soffrono meno la tirannide, e la gelosia. Il vestire, senza quella specie di mantello che chiamano Ferrayé, per necessità adottato da Musulmanni, fa propriamente illusione con l’antico. Portano è vero I cotumi di pelle gialla, attaccati a calzari di saja rossa, ma la veste candida, e trasparente che le cinge la loro vita dal seno in giù; il manto di drappo d’oro, o di seta che cuopre le braccia, e pende leggiadramente sulle loro spalle: un sotrile fazzolette, che si avvolge negligentemente alle tempia, intorno a cui serpeggiano le minutissime treccie de’ neri capelli, fanno un’ effetto vago, ammirabile, e nuovo. Giò che rincresce in cotal foggia di vestimento, è un largo cinto, stretto con anelli d’ oro, o d’ argento, che le donne portano sconciamente in sul ventre in vece di segarsene il seno. Più di 30 di queste greche, s’ erano riunite al ballo del sig. Peruli: una di esse, si pose alla testa delle altre, e guidò la Bomeica ossia la danza latina: gli uomini vi parteciparono, e non ebbero ripugnanza di cederle el comando: e chi poteva resistervi? ell’ era giovane, bella e recentemente sposa: quale morbidezza ne’ movimenti, qual modistia, ma insieme quale espressione negli occhi, e chi sa pure quali palpiti nel cuore! mi dicono che suo marito sia altrettanto brutto, quant’ essa è bella, ma che Sofia, che tal’ è il nome di questa giovane, lo ami perdutamente. Atene è tuttavia il paese de’ contrasti. La musica non cangiò giammai di tuono, ma il ballo guidato dall’ abile conduttrice cambiava spesso di figura: le donne e gli uomini tenevansi per le mani, e lasciavansi condurre dalla regina: la figura ordinaria era quella del cerchio; ora passavan tutti sotto le braccia dell’ ultima coppia, ora si piegavano, e ripiegavano intersecandosi fra di loro; finalmente dopo mezz’ ora, passanto per varj gradi or gravi, or moderati, questo ballo si animò in modo d’interessare: le figure divennero più frequenti, e a seconda de’ movimenti della Sofia tutti piegavano velocemente le ginocchia, sino a toccare il terreno; si rialzavano, giravano su loro stessi, e con tanta grazia, con tanta decenza, ma con tanta anima negli occhi, e nel viso, che I nostri balli posson dirsi muti in confronto di questi. Quelli descrittici dagli antichi, il Fandango degli Arabi, e delli Spagnuoli, le pantomime de’ Romani, e delle vaganti Indiane non possono essere nè più vivaci, né più lascivi. Per dilettare maggiormente s’ univa l’ idea, che questo era eseguito in Atene: cosa mai non abbellisce questo nome, e quest’aria? il pensiere di dover partire da questa città, il brio ispiratomi nel ballo, e forse la dolce immagine della bella Sofia, mi turbarono a segno questa notte, che mi fu impossibile de riposare. Era già in piedi allorchè arrivò il postiglione che venne ad avvertirmi della partenza.
Koester
43 Antiquity, dance songs
III. Saltatoria Carmina
Saltatio apud veteres Graecos cum, poesi et musica arctissime conjuncta, ita exculta erat, ut pedes et manus quodammodo loqui viderentur, et ut omnes fere animi motur, et ipsae res gestae saltatoris arte mirum in modum exprimerentur. Sed artificiosa illa saltandi genera, et carmina, quae iis accinebantur eorum naturae adaptata, hoc loco diligentius investigare a consilio nostro alienum est. Servarunt Athenaeus ((Athen. XIV. cap. 25-30)) et Lucianus ((Lucian. de saltat)) multa variorum generum nomina, et hic quidem mythos nonnullos, qui apud varios Graeciae populos saltari solerent. Sed quum plurimorum nomina tantum ad nos pervenerint, et nihil fere de genere ipso saltationis et carminum natura; vix operae pretium me facturum esse existimo, si mera nomina attullerim, de quibus non constet, utrum populari poesi adjudicanda, an artificioso potius saltandi et canendi generi vindicanda sint. Eorum igitur molesta enarratione sponte supersedeo, et nonnulla tantum, in quorum natura accuratius investiganda securius et firmius progredi licet, in medium proferam.
Illud universc statuendum esse arbitror, antiquis temporibus saltatoriis carminibus choricam, ne dramaticam dixerim, naturam fuisse. Jam apud Homerum sunt saltatores electi (κυβιστητήρες) qui choream ducunt ((Il. XVIII. 605. Od. IV. 19. Lucian. de saltat. 13.)) et in medio choro saltando ceteris modum praeeunt, et cantilenam incipiunt ((Lucian. l. l. 30)) (ìïëðÞò åîÜñ÷ïíôåò) choro eadem cantica exclamationibus intermixtis accinente, vel certis intervallis propria carmina canente. Lucianus disertis verbis narrat, apud Lacedaemonios ((Athen. XIV. 633. a. Ôçñïýóé ãå (ïé Ëáêåäáéìüíéïé) êáé íõí ôáò áñ÷åßáò ùäÜò åðéìåëþò, ðïëõìáèåßò äå åéò ôáýôáò åéóß êáé áêñéâåßò.)), qui Athenaeo teste vetera carmina religiosissime retinebant, duo fuisse saltatoria carmina, alterum, quod certis intervallis in dei honorem canerent, ipsum invocantes, ut saltantibus adesset, alterum, quo choro saltandi praecepta darent. Luciani locum adscribere liceat. Τοιγαρούν το άσμα, ό μεταξύ αρχούμενοι άδουσιν, Αφροδίτης επίκλησίς εστι και Ερώτων, ως συγκωμάζοιεν αυτοίς και συνορχοίντο - και θάτερον δε των ασμάτων, δύο γάρ άδεται, διδασκαλίαν έχει, ως χρή ορχείσθαι. Eadem fere ratione hormus a monilis similitudine dictus, ubi juvenis et virgo choream ducebant et canendi initium faciebant ((Legitur pulcherrima hujus saltationis descriptio (Lord Byron Don Juan canto III. 29) quam adscribere liceat.
And father on a group of Grecian girls
The first and tallest her white kerchief waving,
Were strung together, like a row pearls,
Link’d hand in hand and dancing -)),
atque gymnopaedia apud Lacedaemonios saltabatur.
1. Choragi cantilena.
Exstat apud Lucianum ((Lucian. l. c.37.seq)) carmen, quod ab iis, qui choris praeerant cantari solebat. Eximia ejus simplicitate eo adducimur, ut, non hoc ipsum carmen, tamen persimilia a populo cantata esse statuamus
??Alterius generis carminum argumenta permnlta apud Lucianum ((Lucian. l. c.)) leguntur, sed amnia fere ad deorum sacra pertinuisse, et artificiose videntur composita esse.
2. Anthema.
Servavit Athenaeus ((Athen. XIV. 629. A)) saltatoriam cantilenam, quam flores (Üíèåìá) appellat, huic generi omnino vindicandam. Athenaei verba haec sunt: ήνδεκαιπαράτοίςιδιώταιςηκαλουμένηάνθεμα, ταύτηνδεωρχούντομετάλέξεωςτοιαύτηςμιμούμενοικαιλέγοντες Πούμοιταρόδα, πούμοιταία, πούμοιτακαλάσέλινα. Ταδί τα ρόδα, ταδί τα ία, ταδί τα καλά σέλινα.
In voce ιδιώτης Schweighaeuser. ad Athenaeum proprium populi nomen latere, se olim suspicatum esse fatetur, sed, quum codices hanc scripturam teneant ita accipiendam esse opinatur, ut privatorum saltatio, ei, quae ab armatis pueris saltaretur, opposita sit. Sed saltationes illae, quas Athenaeus paulo antea recenset, neque κερνεφόρος neque μόγγας nec θέρμαυστρις ab armatis saltabantur, sin voci ιδιώτης ea, quam Schweighaeuserus proposuit inesset notio, certe hae etiam eodem jure privatorum saltationes appellarentur. Res luce clarior est, significat enim vox éäéþôçò, id quod sexcenties fieri neminem fugit, hominem altioris artis expertem et panlo rudiorem, ipseque Athenaeus igitur hanc cantilenam e popularium carminum numero esse, diserte affirmat.
Praeterea, quae fuerit hujus cantilenae natura, ipsis verbis modo adscriptis perspicuum est. Fuit puellarum cantilena, qua agendo et canendo virgines flores decerpentes et colligentes imitabantur, vel potius ipsae puellae flores decerpentes ea utebantur. Priori, versu puellarum praestantissima, ubi sunt rosae, ubi violae, ubi apia, quaerit et posterior versus, sicuti vulgo exhibetur, ðïý ìïé ôáäß ôá ñüäá ññ. idem fere significat. Sed prioris versus voces ðïý ìïé, id quod facillime fieri potuit, posterioris versus initio indocta librarii manu repetitae sunt, quibus omissis, et sententiae, et metro, me bene consuluisse existimo. Quaerit puella, ubi sunt flores illi et respondet chorus, ecce hic adsunt. Quo accedit, quod ineptum est quaerere, ubi sunt hice (ôáäß) flores, quum certe non amplius quaerendum sit, si digito commonstrare jam possimus.
De metro optime res se habet. Sunt tetrametri jambici catalecti,
- - õ õ õ / - - õ õ õ / - - õ õ õ / õ - õ
õ - õ õ õ / õ - õ õ õ / õ - õ õ õ / õ - õ
quos veteres et recentiores Graeci saltatorriis carminibus aptissimos putabant. Optime hoc metro puellarum motus flores quaerentium et invenientium depinguntur.
Priore versu graves dipodiae optime quaerentium incessum paulo tardiorem et languidiorem exprimunt, posteriore leves earum, quae invenerunt laetam exclamationem depingunt, universe autem jamborum arsis, maximam partem soluta, celerem et inquietum motum significat.
3. Lacedaemoniorum cantilena.
Senum virorum et puerorum Lacedaemoniorum cantilena, quam Plutarchus ((Plutarch. institnt. Lacon. (p. 251. ed. Hutten.))) servavit, huc pertinere videtur. Versus sunt trimetri jambici. Senes canebant
Αμεςποτ΄ημεςάλκιμοινεανίαι.
Viri
Αμες δε γ΄εσμέν, αι δε λής αυγάσδεο.
Pueri
Αμες δε γ΄εσσόμεσθα πολλω κάρρονες.
4. Bottiaearum virginum cantilena.
Plutarchus ((Plu. quaest. Graec. 35)) Bottiaearum virginum cantilenae mentionem facit, quam inter saltadum canere solerent, et partem ejus servavit
ΙωμενειςΑθήνας.
Plutarchus Bottiaeorum urbem Cretensium coloniam esse, et inter viros Cretenses, qui coloniam deduxissent, Athenienses uonnullos fuisse narrat, quorum filiae, patriae et gentis originis memores hac cantilena uterentur.
Uffenbach
90 (in Cofini 93-94) Napoli, Italy03/05/1715
Pag. 682 [Napoli, 3 maggio 1715]
Non lontano da quella osteria/ vedemmo in istrada un gruppo di contadine/ che con grande gaudio saltavano e ballavano/ Tutte ballavano e saltavano in fila./ Con sè portavano due zampogne ed un tambour de basque, in modo da dare l’impressione di una [vistosa?] ed alquanto antica processione o un allegro baccanale […]/ al modo delle antiche processioni di Bacco/. Ci avvicinammo per vedere meglio [Vedemmo] una giovane contadinella pallida/ silenziosa e strana, che stava in mezzo, della quale/ le altre dicevano, che fosse stata morsa dalla tarantula/ e che andavano tutti insieme a lei a piedi in cittá.
….
pag. 683
La loro danza aveva quindi lo scopo/ di animarla a fare altrettanto, per farla curare se stessa tramite l’estasi./ Tuttavia, non [ne aveva voglia] e, nonostante l’allegria delle altre, aveva un aspetto molto triste.
Fresne-Canaye
260-261 Pera, Constantinopoli
Adesso mò non piu de colonne o Moschee ma de qualche soggetto piu giocondo per ristaurarci alquanto della stanchezza d’hieri vo raggionare, diro adunque delle nozze d’ un Perotto mercante richissimo chiamato Scudi il quale piglio per moglie una ricca et bella giovane della sua citta et desideroso di veder i costumi d’ i Perotti in questi parentadi, et perche dolce sempre m’ e parsa la compagnia delle donne a queste nozze andai. Alla porta della casa stavano per guardia alcuni Gianizzeri. Tutte le donne eran ragunate in una sala dove erano scagni per li huomini cosi come per le donne, le quali pero eran tutte in un drappel racolte et gli huomini occupavan il altra parte della stanza. Queste Perotte vestite tutte come se d’ i Regali di Francia fossero uscite sedevano intorno al throno della nuova sposa senza parlarsi o ridere o girar gli occhi in qua et in la come l’ altre donne fanno ma con una maesta grande ascoltavano i canti et suoni d’ una harpa greca li quali pero mi parevano piu funesti che convenienti al lieto Hymeneo, la giovane noviza a guisa delle Reine de Catai era assisa sotto un baldachin d’oro con una corona in testa che pareva una Diana fra le sue piu leggiadre et caste Nimfe. Il splendore delle sue perle rubini et gioie m’ abbargliava si vista ch’ a pena poteva giudicar chente (sic) o quali fossero le sue bellezze. Et oltre a cio i suoi capelli d’oro terzo sopra li bianchi et delicati homeri ricadenti havevan un non so che di piu lucenti raggi del sole verso la merigiana i quali l’ ochio mortale non puo troppo guardare. Tanto mi ricordo ch’ ella teneva le mani ascose sotto un fazoletto ch’ havea attaccatto sotto il petto et la veste era di veluto cremesino faldata alla Ragusea.
Prima ch’ il passemezo si prendesse si porto da confettare, vini perfettissimi et molte altre cose inzuccherate et dopo l’ haver confettato a bastanza il marito passato per mezo lo squadrone delle donne pervenne al tribunal della noviza et messosi a sedere a canto di lei subito furon amenduni coperti d’ un ferize di scarlato, et sotto di quello nascosi è da credere che si dettero i piu saporiti basci del mondo riservando pero il compimento della festa a tempo piu oportuno perche subito levato il sposo come se in cosi breve tempo la donna li fosse venuta a fastidio a sedere con gli huomini se ne torno. La madre o Amita della sposa ricevette in un basin d’ariento i presenti che da parenti o Amici della sposa le venivan fatti.
In tanto un vecchio comincio a sonar sulla harpa una carolla quasi del tuono d’ un passemezo et il padre del sposo pigliata la noviza per la mano comincio a carollare et cosi molti altri parenti prese le cugine o conoscenti loro la danza seguitarono.
Katsaïtis
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…questo santo monaco con tutta la cordialità, e l’affetto, e mi tratenne seco lui più di due ore facendomi vedere la sua biblioteca bensi picciola ma di libri molto scielti e le sue opere di matematica. Congedatomi da questo erudito maestro mi unii col governator de nave, e cogl’altri della compagnia che trattenevansi negl’orti circonvicini, co’quali consumammo il resto della giornata girando per la terra e visitando quelle signore le quali tutte facevanci infinite accoglienze.
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1/36 Mycone, 1740
È notabile che tanto quivi come nelle restanti isole dell’Arcipelago, essendo gl’uomini dediti alla navigazione, ed al traffico, la maggior parte dell’anno trovansi spopolate d’uomini, appena potendosi contare ogni cento donne un uomo solo. La sera per mezzo del Sigr. Paleocapa, ch’erasi sbarcato per passare a Tine sua patria, s’unirono in casa del console Bau le principali e più belle gionavi del paese, e fatti venire dalle navi tre [o] quattro instrumenti si dansò all’uso del paese tutta la notte, facendo S.E. governator di nave portare da bordo copiosi e generosi rinfreschi con quantità di biscotarie. Le più belle de tutte le giovani quivi raccolte erano la sigra. Maddalena, figlia del console di Francia Antonio Gizi, la sigra. Chiurà figlia del console Bau, e le Ssre. Elena e Marinetta due sorelle da Tine parenti del Sr. Paleocapa. Stettimo a ballare con molto piacere, ed allegria sin’à giorno chiaro, quando licenziatici da quelle Ssre., e da consoli si portassimo al nostro bordo. E spirando un ostro disteso, levammo subito le ancore per proseguire il nostro viaggio. La notte fuggirono col caicco della nave sette de’ nostri marinaj.
Valle, Pietro della
169 Chios
Del resto, per essere paese di Turchi, non si può viver con maggior quiete, nè con maggior libertà. Non si fa mai altro che cantare e ballare e stare in conversatione con le donne, e non solo il giorno, ma la notte ancora fin à quattro o cinque hore per le strade, che io mai ai miei di ho provato vita più allegra et in quanto a me, v’impazziva di gusto. Ha ragione in Belonio a dir che la gente di Scio è cortese e amorevole; che certo non se ne può dir tanto, che non sia molto più.
Io col mezo degli amici e della lingua che mi aiutava assai, presi in un tratto domestichezza grande, e gia trovava innamorate e trattenimenti quanti ne voleva e le donne veramente son belle e avvenenti assai, ma l’habito non mi piace. Perchè oltre d’una scuffia che portano in testa, senza altra copertura, la quale, ancorche lavorata vagamente di seta di colore o verde o turchino o rosso (chè di altri non ne ho veduti) cuopre loro nondimeno in mal modo quasi tutti i capelli e parte anche della fronte; onde a me pare che si levi al viso tutta la gratia; hanno di più le vesti con busti cortissimi, che per conseguenza fanno la cintura non dove la natura l'ha fatta, ma sù sù fin quasi sotto le poppe e alle spalle, che non si….